30 giugno 2014

Non solo storie, ma... Sghembestorie, una recensione di Alice Trabucco



Avete presente i cantastorie? Quelli che di paese in paese, di stagione in stagione, di mondo in mondo, si portano addosso le loro storie e le regalano al silenzio degli altri?
Ecco, sicuramente ognuno di noi ne ha avuto uno.Ora, cosa succederebbe se queste storie non fossero solo storie, ma fossero anche Sghembestorie?
Come cosa sono?
Sono storie che si rimboccano le coperte e tengono per la sottoveste i sogni, prima che svaniscano alla luce del sole. E si sa, nei sogni non c'è prima e non c'è poi. Non c'è Lui e non c'è Lei. Non ci sei Tu e non ci sono Io. Ci sono solo loro, le immagini interiori, che sono un tutto globale, un simbolo impercettibile, ora trasandato, ora trasognato, ora ironico, ora innamorato.
C'è l'intimità del non-tempo, scivola sulla carta come il colore su una tela astratta, ancor prima del definirsi della forma. Un po' Mondrian, un po' Kandinsky. Oppure c'è la linea, quella che fende l'oscurità del vuoto e tesse il sogno, preziosa come un saggio, infantile Mirò.
Stelle, tutte intorno.
E poi musica, non manca mai al cantastorie. La musica che fa tornare il tempo e porta al sogno un po' di realtà, giusto così, per lasciare che lo si possa usare quando serve, anche mentre ti cuoci la pasta o guidi la macchina o ti innamori o ti disamori.
Il cantastorie passa, ti sussurra appena la sua storia, ti lascia uno scarabocchio nell'anima. Ora sì, ricordi, lo avevi disegnato tu, tanto tanto tempo fa, all'epoca del tuo primo sogno.



Alice Trabucco








* Alice Trabucco è una scrittrice, autrice di un romanzo: "Cosa ci fai tu qui con un fiore tra i capelli?", Felici Editore; di poesie: "A-mors", Aletti Editore; di racconti: "L'apice sommerso", Ilmiolibro. 




28 giugno 2014

Ultimo atto [Valentina Luberto e Miriam Catera]



Attesa, 1965, Fontana

Rossa Speranza, distesa sull'asfalto, sei mia vittima innocente.
Sono quell'attimo prima che accada qualcosa, quando si ha il presentimento che accadrà, cadendo da una qualche altura verso la quale si puntava lo sguardo prima di andare a dormire, quando le membra stanche gridavano il riposo, ma gli occhi ancora puntavano alla vetta, in un ultimo, sospirato, attimo di speranza.
Sono lì, proprio in quel gesto che si solleva, che sta teso fino a farsi male, come lo stare in punta di piedi di una ballerina ansiosa.
Sono lì, in quel crampo allo stomaco, quando ancora non si arriva alla coscienza del dolore, dell'interruzione, ma già gli acidi si mettono al lavoro dall'interno, e cominciano a corrodere un bel sentimento.
Sono lì, con lo sforzo del capo sollevato, quando il collo non riesce più a sostenere il peso di tutti quei pensieri d'amore che si stanno spegnendo; non sono riusciti a trovare un modo per volare, per farsi ascoltare o accogliere da uno sguardo altrettanto innamorato.
Sono lì, nella mano che puntava alle stelle, quando perde la sicurezza e comincia a tremare e l'indice si fa pesante, sta per perdere la strada verso il cielo.
Sono lì, ora. E cado.
Vado lentamente, non voglio che finisca subito, perché sento ancora la tensione dell'amore, perché anche "l'attimo prima" ha un cuore che non ce la fa ad arrendersi.
E l'indice scivola sulla tela rossa, scivola sulla speranza che pareva granito, un castello incrollabile da abitare.
Il capo s'abbassa, ha perso di vista il cielo e le spalle si sono fatte pesanti.
Lo stomaco s'agita, ché pure quello ama, ma che deve fare, preso dalle correnti acide del dispiacere, della mancanza e del desiderio mai realizzato.
Precipitare più lentamente di così non posso, perché il dolore è troppo, soffoca, e per respirare devo aprire il varco.
Perdonami Speranza, sono così stanco di patire, pago la mia presunzione, ho preteso di essere un'eternità, l'ho fatto per loro, perché vedevo il loro amore, come te,  e volevo aiutarlo a fiorire. Ma non ci sono riuscito. Ho capito che non spetta ad un solo attimo racchiudere un così grande sentimento, per quello, ci vuole più tempo.
Facevo un torto a loro, costringendoli a rivivermi all'infinito, costringendoli a tenere insieme tutto. E così ho finito per sospenderli in un unico gesto, li ho stretti lì, stritolandoli. Per questo ti ho ferito Speranza, e ho ferito me stesso, per lasciarli riprendere fiato. (*)



Red Plastic, 1964, Burri


Siamo così. Due voragini scure accartocciate in quello che prima era ed ora non è. Due maschere senza volto che, in fondo, si sono riconosciute, vissute, confuse e che si lasciano andare. Tra un lembo e l’altro di una storia che si chiude. Su se stessa, su tutto quello che ha animato la scena e che, ora, viene ingoiato dalla tenda rossa e malandata di un teatro di periferia. Uno di quelli con le poltrone scolorite, il tendone logoro, le locandine impolverate, capovolte e dimenticate. Uno di quei posti dove va solo chi ha nostalgia di ciò che un tempo era e ora non è più. Per non dimenticare, per chiudere gli occhi e vedere, ancora una volta, le poltrone di velluto rosso fiammante, il tendone rubino che apre la scena su tutto quello che deve accadere, il vociare eccitato del pubblico che ammutolisce appena le luci si spengono e l’occhio di bue diventa una buona scusa per sbirciare. In una storia che non conosciamo, che è di tutti e di nessuno, che è inevitabilmente anche la nostra. Il tendone si chiude, gli occhi si aprono. Il teatro sta cadendo a pezzi e noi ci stiamo dentro. Non scappiamo. Restiamo lì e ci facciamo ingoiare. Le maschere si sciolgono e in un attimo è buio. Non c’è più niente. Non ci siamo più.






[Grazie a Miriam Catera per aver dato voce all'Attesa di Fontana (*) e per aver regalato a questo post la colonna sonora]

[Per quanto riguarda Burri... spero non si arrabbi con me :D ]


26 giugno 2014

Domanda su cui si accorgono che glisso. Dovevo inventarmi qualcosa. Me la sono inventata. Speriamo non se ne accorgano.


Sarolta Bán


Perché scrivo?

Perché altrimenti mi mancherebbe l’aria – e soffocherei di noia per questa risposta, degna del miglior best seller da Autogrill. Io voglio finire in Autogrill? No, morirei di fame in Autogrill. Prima che per soffocamento da noia, indotto da tristi risposte, morirei per suicidio da cibo d’altri tempi ché non me la danno a bere: negli Autogrill esistono ancora i pani e i pesci moltiplicati da qualcuno, sempre gli stessi. Quel qualcuno lì, quella volta, ha proprio esagerato.

Perché scrivo?

Perché sì! – Ma sì, diretta, senza troppi fronzoli. Dritta al punto, così dritta, da rimanerci inchiodata in quel punto. Succede così, basta dire  e sei fregata. Tutti ti identificano come quella che dice sì, quindi: chiamiamo lei per cucinare alla festa, chiamiamo lei per farle sciroppare tutto il filmino del viaggio di nozze, chiamiamo lei quando non ci va di andare fare la spesa, insomma, chiamiamo lei per tutto il tedio che ci scappa di elargire e che il mondo deve sopportare. Se il mondo non può: chiamiamo lei! No! Proprio no! Perché sì! Non va bene.

Perché scrivo?

Per comunicare l’incomunicabile che si cela, silenzioso, nella parte più recondita del mio essere e che, la sola forma, non riesce ad estrinsecare – La filosofia colpisce. Sempre. Il più delle volte come un macigno in testa. La pseudofilosofia anche di più. Come un diretto sui denti. Non posso permettermi il dentista per me, figuriamoci per le vittime del mio inconsapevole diretto filosofico sui denti. Desisto.

Perché scrivo?

La verità è che questa è una delle domande più difficili a cui rispondere perché io non sono una di quelle che: scrivo da quando sono riuscita a tenere una penna in mano. No, io per tantissimi anni ho avuto pudore per la scrittura. Tranne qualche, ormai – ringraziamo tutti il Signore – trapassato, componimento poetico dedicato all'amabile – ormai che sa di tappo – tizio della quarta C, io non riuscivo proprio a vincerlo tutto quel pudore. Per tanti anni ho cercato qualcosa che mi aiutasse a comunicare ciò che pensavo di possedere, ma che non sapevo riconoscere e condividere – non temete, non è pseudofilosofia, solo osservazioni di vita – tentando con la musica, il disegno, la poesia. Niente di tutto ciò ha mai rappresentato il mio pieno; poi ho iniziato a scrivere e mi sono trovata bene. Mi sono trovata.


[Dite che sarebbe stato meglio glissare sulla domanda? ]


23 giugno 2014

Appunti per Sghembestorie, una recensione di Maria Sardella



Mi accingo a commentare le Sghembestorie di Valentina Luberto, ed. Lettere Animate.
Sono assediata dalle cose da dire. Ma starò attenta a non svelare troppo.

Comincio dalla Sorpresa:

“Tutti hanno un sogno, anche noi stamattina ne avevamo uno: prendere il sole in pace senza che nessuno ci desse un bel calcio. Poi sei arrivato tu e il nostro sogno è sfumato.”
Pensi, ingenuo lettore, di essere su una spiaggia, affollata di bagnanti, sdraiati bellamente al sole, con bambini vocianti e mamme che li rincorrono? Credi che a parlare siano persone petulanti e intolleranti? Sbagliato. Siamo catapultati in una delle Sghembestorie di Valentina Luberto, per la precisione nel primo racconto, Una storia o su di lì. Parte da questo punto, o su di lì, il patto narrativo tra il lettore e le parole che danzano sulle pagine, mosse da un narratrice implacabile. Bisogna affidarsi a loro, lasciarsi andare in una dimensione surreale dove oggetti, persone, fenomeni naturali e persino concrezioni rocciose parlano, si indignano, protestano (è il caso di Era e Ora due pietre sul sentiero) e sognano. Insomma in questa e nelle altre Sghembestorie assistiamo con naturalezza e (apparente) levità a un processo di antropomorfizzazione (mi si passi il conio linguistico), nel quale azioni impossibili trovano il modo di essere agite con disinvolta ‘normalità’. Dopo i primi passi rinunciamo spontaneamente, senza che ce ne accorgiamo, alle coordinate di tempo, spazio, luogo, a cui siamo abituati e cominciamo anche noi a ragionare più o meno come i personaggi bizzarri e singolari di questi racconti.

Continuo con Letterarietà:

Ogni particolare diventa un ‘personaggio’, un elemento narrativo che vive di vita propria. Nel racconto “Piera e i suoi lacrimosi moti” quello che sembra essere il personaggio principale non è rappresentato in sé, ma è definito nella sua entrata in scena dalle movenze del suo deretano, anzi dal lembo di stoffa che lo ricopre con qualche difficoltà. La moka borbotta, la torta è un ricordo…
C’è vita nei racconti di Valentina. Una vita che ferve laddove non si crederebbe mai.
Per il nitore delle immagini ingenue, penso a Mirò. “Una melodia lontana raccontava, senza parole né voce, il blu di pensieri affidati alla faccia scura della luna che li aveva portati via con sé. Nessuno più riusciva a scorgerla tra le stelle, forse era fuggita, qualcuno pensava che l’avesse ingoiata il pozzo che nessuno vedeva.” da In una notte come tante e nessuna.
Per la ricchezza sorprendente  dei particolari che chiamano e richiamano l’attenzione del  lettore penso a Bosch, depurato della  perfidia e della mostruosità dei suoi personaggi. Ma come non pensare a Dalì, alle cui fantasticherie grafiche corrispondono le fantasticherie narrative di Valentina Luberto. Il mondo surreale e onirico di Valentina proviene da una duplice esigenza: la fantasia sbrigliata e tenace coniugata al persistente realismo. Ci troviamo di fronte a una proposta narrativa surreale che compone il verismo delle azioni con le situazioni paradossali.

Proseguo con Divertimento:

Anche i colori sono a loro modo protagonisti, in una cifra a volte trasognata a volte tragica: “La stanza rossa era lì”. La vediamo nella sua potenza, indiscutibilmente. Così come i giochi di parole che tradiscono il divertissement che si nasconde dietro ogni situazione inventata. I giochi di parole che si divertono essi stessi a rovesciare il mondo e/o l’immagine che se ne dà abitualmente. Vedi l’equivoco tra sole (astro) e sole (aggettivo) nel dialogo scombinato tra la Dama Sveglia e il Cavaliere Smemorato del racconto succitato. Un gioco ripetuto volutamente anche nei titoli. Cercateli e vi sorprenderete. Così è, se vi pare.
La meraviglia è il sentimento principalmente destato nel lettore. Le pietre Era e Ora parlano, la poltrona è di nebbia, gli abbracci sono elargiti da un solo braccio, una poltrona, un pianoforte, un ramo secco arrivato da chissà dove.  Una poltrona di nebbia che conduce nel mondo dei ricordi. Insomma, un mondo impossibile, ma talmente vero da rendere trascurabile il mondo reale. Usate la lente di ingrandimento: “È  stato un colpo di fulmine anche se era una bella giornata di sole”.
I racconti sghembi di Valentina Luberto, per utilizzare immagini care a Piera dai moti lacrimosi, sono come una cipolla da sfogliare, come un carciofo da rendere inoffensivo perché sveli il suo tenero cuore.

Concludo con Visione della vita:

Ne scaturisce una visione della vita: “Le certezze mi mettono ansia, preferisco vivere continuamente sospeso e in equilibrio precario” dice l’equilibrista in Lo strano caso delle X di Orsorosso. Ipotizzo che sia parte della visione dell’autrice, anche se lei non scrive mai a tesi, ma solo seguendo il suo estro narrativo.
Accanto ai fantasmi ci sono le sparizioni, sono tante e sempre miracolose o mirabolanti. Non sparire, mi raccomando, Valentina Luberto.  Aspettiamo altre storie che siano sghembe o no.


Maria Sardella



* Maria Sardella è Autrice di romanzi. "Così è la vita, amore mio", premio Città dei Sassi, Altrimedia 2009, e "La musica del mais", Bibliofabbrica, Brescia 2013. Traduttrice di Tahar Djaout con "L'ultima estate della ragione", Bibliofabbrica, Brescia 2009. Vive a Brescia.

18 giugno 2014

desideri muti

Irene Salvatori


E arrivi tu. 
 
Nell'angolo di un sorriso dimenticato,
tra tutte le scuse per non lasciare andare la notte, 
nei baci nascosti nei pozzi insieme ai desideri da non dire. 
 
E arrivi.  

Con una promessa coraggiosa 
che si scioglie negli ultimi respiri della notte 
e irrora il giorno per vederlo sbocciare.

Tu.
 
Che non hai luogo e tempo, 
che vivi tra queste parole e la verità di un desiderio muto 
custodito in un bacio, nascosto in un pozzo.
 

 


[Grazie a Sario che mi ha regalato questa canzone, quando ancora non c'erano le parole, ma sapeva che le avrei trovate. Lui lo sa sempre, io meno...] 

[E grazie a Miriam che ha interpretato questa sghemberia per me. Potete ascoltarla qui ]


9 giugno 2014

Quando le penne s'incontrano e decidono di volersi conoscere meglio :D



Sario Laveneziana mi ha simpaticamente intervistata sulle mie 


Se siete curiosi, cliccate  

qui.

Se non vi interessa quello che ho detto, ma vi piacciono le cose belle, date una sbirciata a 


Se poi volete leggere sempre le solite cose, be' 

cliccate a caso...

In ogni caso, un sorriso a tutti!




8 giugno 2014

confidenze d'un chiaro di luna




 



Lentamente,
ciondolano pensieri pensili
legati alle diafane confidenze d’un chiaro di luna.

Tra le dita il tintinnio
d'emozioni di cristallo appena sfiorate.
Sei tu. io.

E i contorni si liquefano
in un abbraccio d'anime
tra i veli bianchi della bruma della sera.


[Lirica selezionata e inclusa nell'antologia "Ho conosciuto Gerico" del Premio Alda Merini 2014, edita da Ursini Edizioni.]

7 giugno 2014

racconti di tamerici





Si rincorrono.
Là, tra le tamerici e i diaspri
d'un selciato di vespro vestito.

Impressioni di rosa, celiano gioiose,
tra ombrellini vezzosi e gocce di luce.

Tautologia d'un medesimo sentire
adagiato su un letto d'ovatta e fiori.


[Lirica selezionata e inclusa nell'antologia "Ho conosciuto Gerico" del Premio Alda Merini 2014, edita da Ursini Edizioni.]